Lorenzo Vigna

Lorenzo Vigna è nato e vive a Mantova. Giornalista pubblicista, negli anni Settanta ha iniziato a collaborare a giornali e periodici.
Presso Sometti nel 2015 è uscito il suo libro “Riflettori accesi”, una raccolta di ritratti di personaggi famosi. Questa la prefazione di Werther Gorni, direttore del settimanale La Cronaca di Mantova.

Per quando noi non ci saremo


Lorenzo ha capito tutto. Anzi, è capace di tutto. Ovvero di farsi trascinare dall’entusiasmo e di saper cogliere l’attimo.
Quando? Nel momento in cui c’è qualcuno che lo coinvolge. Che sia un calciatore, che sia uno scrittore, che sia una persona qualunque.
Ecco, ha lo spirito di un giornalista. Pur svolgendo altre attività, completamente diverse.
Giornalista. Il termine si specifica da sé: uno che lavora per un giornale. Con conseguente cascata di ruoli: capo servizio, cronista, impaginatore, titolista... Magari collaboratore. Appunto, collaboratore.
Guai a chi sostiene che chi scrive da esterno per un quotidiano o un periodico debba per forza essere di grado inferiore a chi vive e lavora in redazione. Affermare una cosa del genere significa non avere chiaro il sistema editoriale. I giornali, quelli delle città di provincia soprattutto, hanno nei collaboratori e nei corrispondenti le risorse più schiette. Ebbene Lorenzo, occasione dopo occasione, continua a percorrere la strada lastricata di carta.
Fogli su cui battere le lettere dei tasti della Olivetti 22 o video da riempire battendo, in tempi più moderni, le lettere della tastiera del computer.
Cambiano gli strumenti, rimane integra l’ispirazione. Letteraria e profonda, ironica e sagace nell’intervistare, nel radiografare personaggi e personalità, nel riflettere. I “suoi” interlocutori, più o meno diretti, finiscono ritratti sulle pagine del quotidiano e del settimanale in cui la libertà di parola non è evangelico comandamento bensì essenza naturale.
Vigna: un “terreno razionale” dove cogliere i frutti di quella 11 passionaccia che ha il sapore del vino fatto in casa. Non per caso le sue dediche sono per il maestro Indro Montanelli – Il Giornalista – e per l’idolo interista Javier Zanetti. Due mondi non così distanti tra loro perché umanità e professionalità non hanno bisogno sempre e soltanto di macchine per scrivere o di palloni da calciare.
Lorenzo ha saputo e sa, con umiltà, ricavare il succo. E se ha reso omaggio, con i suoi “saggi”, a decine e decine di protagonisti, oggi può affermare di essere lui stesso un protagonista della sana cultura giornalistica che si è persa nell’universo di macchine ormai senza più spazio nè tempo. Lascia testimonianze. Perché la Scrittura è l’Highlander dell’Uomo. Per quando noi non ci saremo.

Werther Gorni

Liberale & interista

Marcello, l’artefice di questo lavoro, mi chiede di “buttar giù due, tre paginette”. Per raccontare chi sono. Sono sempre a disagio a raccontarmi: non bastano gli articoli? Insiste: completerà il sito, gli articoli con l’autore. Mi arrendo. Racconterò di due elementi che mi rappresentano. Il primo è una passione, si chiama Inter. L’altro lo definirei una mentalità. O uno stato d’animo. O un metodo. O l’insieme di questi fattori.
L’elemento liberale.

L’Inter è comparsa la prima volta a casa di mio zio Manlio. Un quadretto illustrava un calciatore inglese dai capelli biondi, Gerry Hitchens. Sotto, la scritta Il minatore del gol. Era a mezzo busto, la maglia indossata quella nerazzurra. Il soprannome si spiegava col fatto che, siamo nel 1962, i calciatori prima di diventare tali spesso avevano lavorato. E Hitchens, seguendo le orme paterne, aveva guadagnato le prime sterline nelle miniere di Sua Maestà. L’anno dopo Hitchens sarà ceduto, io e l’Inter rimarremo uniti. Perdutamente uniti. Oltre lo zio, anche i miei genitori – mia madre non ne parliamo – hanno sempre tifato Inter.

Sono gli anni della Grande Inter. Il primo episodio di cui ho memoria è la sconfitta nello spareggio col Bologna. 1964, una delusione enorme. Piansi. Ricordo anche il primo giugno 1967. Mantova-Inter, 1 a 0, col famoso gol di Di Giacomo. Ero presente: avevo 11 anni, altro pianto. Uscendo dallo stadio incrociai Mariolino Corso. Venne naturale consolarlo: “Forza Mario, vinceremo l’anno prossimo”.

In quegli anni la squadra della mia città, il Mantova, militò più volte nella massima serie. Per l’Inter al Martelli non furono mai passeggiate. Il più delle volte pareggiò. L’unica volta in cui dilagò fu il 16 gennaio 1972. Vincemmo 6-1, segnarono 2 volte Boninsegna e Bertini, una Pellizzaro e Facchetti. Per alcune ore dimenticai le pene patite da mio padre, da un anno dentro e fuori dall’ospedale. Proprio mentre Bonimba & C. mi servivano la gioia, lui finiva di vivere. Mia madre non volle interrompere il riverbero di quella felicità. Lo seppi l’indomani, al risveglio. Da allora il 16 gennaio per me è una data indimenticabile e binaria.

Nello stesso anno, a maggio, si tennero le elezioni di Camera e Senato. Arrivavano con un anno d’anticipo, la prima legislatura interrotta. In quegli anni la politica è ovunque, l’indifferenza è vista come una diserzione, partecipare alle scelte che indirizzano il futuro un dovere. Avevo 16 anni, il voto non mi riguardava – si votava a 21 - ma il futuro sì.

Si trattava di scegliere chi avrei votato. Come mi sarei definito. Un compito di cui avvertivo la portata. Quindi informarsi, approfondire, meditare. E prima del voto, decidere.

Scartai subito i partiti alle estremità. Scartai anche la Dc: diffidavo del suo abito clericale. A quel punto mi orientai sulla forza più sensibile alla salvaguardia delle libertà. Sarei stato un liberale o un anarchico. Per settimane, ho letto e riletto. Quotidiani, periodici, ma anche saggi noiosi. Il modello anarchico mi stava catturando. Si presentava col candore di una fiaba: nessuno che comandi, la coscienza al posto delle leggi. Al contempo mi chiedevo: funzionerebbe?

Se ci penso, ero un po’ nerd. A quattro anni, mi mandarono in colonia a Cesenatico. Per anni avevo sentito che “l’erba voglio non esiste neanche nel giardino del re”. Ai compleanni ricevevo Cuore e Le mie prigioni; ogni settimana il Corriere dei Piccoli. Aggiungiamoci Perry Mason e il maestro Manzi, Rin Tin Tin e John Wayne. Il retroterra, anni Sessanta, era questo.

Furono settimane impegnative. Sembrava che le sorti dell’Italia dipendessero dalle mie decisioni. Alla fine l’offerta liberale, più razionale e completa, prevalse. Se avessi votato, avrei barrato la lista col tricolore.

Dopo il voto inaugurai una militanza singolare. Temendo un’obbedienza totale, non volli iscrivermi. In quei giorni il Pli era tornato al governo. Sui giornali seguivo l’azione dei suoi ministri. Soprattutto Malagodi, finito al Tesoro. Un articolo di Montanelli lo definiva “l’uomo giusto al posto giusto”. Lo ritagliai. A livello locale, dove non conoscevo alcun iscritto, seguivo i comizi. All’edicola della stazione acquistavo l’unica copia della Tribuna, l’organo del partito, un quindicinale a due colori su carta lucida. Ero un sedicenne che leggeva gli articoli di Federico Orlando e Giovanni Malagodi, di Luigi Barzini e Agostino Bignardi. Anche se i primi riferimenti rimasero Indro Montanelli e Luigi Einaudi. E dal 1976, quando divenne segretario, Valerio Zanone. Negli stessi anni iniziai anch’io a scribacchiare. La prima destinazione, sulla Gazzetta locale, fu la pagina dei lettori. Poi toccò alle recensioni dei dischi. La stagione era quella degli lp e della Pop Music.

Oggi posso dire di essere stato fortunato. La scelta liberale ha rappresentato più aspetti. Come vaccino, mi ha evitato l’uso di occhiali settari. A diffidare di poteri fuorvianti o delle mode. Come antiossidante mi ha allevato al dubbio, all’autocontrollo, alla riflessione. Ho così potuto “adottare” anche figure estranee al perimetro liberale. Il Pasolini degli Scritti corsari. Francesco Guccini, di cui non perdevo un concerto. I pericoli denunciati da Orwell. Le lezioni di don Milani sui punti di partenza educativi. Gli articoli di Bocca.

Quante volte mi sono sentito chiedere “ma tu, che ti professi liberale, come possono appassionarti certi autori, certe canzoni, certi registi?”. Mi stupivo. Questi gradimenti scaturivano in modo naturale, non mi sentivo in contraddizione. Penso grazie al vaccino liberale: mi ha aiutato a scovare i pregiudizi, a tenere la mente aperta. Quantomeno a provarci. Avrei voluto chiedere io a questi signori come facevano a coltivare mentalità chiuse o faziose. Il tempo a volte è generoso. Quante volte, in seguito, ho visto questi amici allontanarsi dalle loro verità e scoprire di colpo le virtù del liberalismo.

I dubbi, per fortuna, non mi hanno abbandonato. Le opinioni possono mutare col mutare delle stagioni o dei fatti. Ma nessun evento mi ha ancora fatto pentire della scelta liberale.

A 24 anni, finito il militare e col primo lavoro stabile, presi a frequentare San Siro. Quando accadeva, la domenica, mi svegliavo avvolto da un’energia fremente. Poi in treno, dove conobbi altri “infettati”, questa carica sprigionava un’aura di felicità. Più la meta si avvicinava, più la febbre aumentava. Giunti a Milano, lasciata la metro fra canti e sciarpe nerazzurre, alla vista di San Siro la felicità esplodeva. Chi non ha mai posseduto una squadra del cuore, chi non l’ha mai seguita non può capire il significato di un’appartenenza. La forza di gesti condivisi, gli abbracci dopo un gol. Come la classifica possa trasformarsi nel primo dei progetti. Nello stadio che è diventato il tuo stadio.

L’Inter del 1979-80 era quella di Bersellini. Capimmo presto che avremmo lottato per il titolo. Fu così. Il 27 aprile, dopo nove lunghi anni, tornammo a cucirci lo scudetto sulla maglia. A fine stagione decisi che questo amore meritava fondamenta più solide. Così fondai l’Inter Club Evaristo Beccalossi.

Per quasi vent’anni fu un susseguirsi d’iniziative. Le prenotazioni dei biglietti, i pullman, gli abbonamenti. Le tessere per i soci e le cene per distribuirle. I contatti con i giocatori, le trasferte ad Appiano e in altri stadi. Amicizie piene, atmosfere solidali, episodi irripetibili. Agli inizi, ad esempio, non avevamo un bar d’appoggio. Ci si prenotava telefonandomi. Alla vigilia delle partite clou la linea di casa diventava rovente; per cenare un po’ in pace dovevo staccare il telefono. Ma anche dopo avere trovato un bar dove iscriversi, c’era chi chiamava me. Per scambiare un parere, chiedere del futuro o di un acquisto. Non fu semplice cambiare queste abitudini. Ma non furono mai sforzi. Tutto filava liscio. Nati come riferimento degli interisti mantovani, scoprimmo che eravamo una comunità.

Nel 1979 decisi che potevo fidarmi della tolleranza liberale e presi la prima tessera. Fu una militanza assidua, esauritasi mi pare nel ‘91. Tra Pli e Gioventù liberale ebbi qualche carica a livello locale e regionale. Un’elezione nella circoscrizione del mio quartiere, varie partecipazioni a congressi e convegni. Inevitabili quelli su Gobetti. Un punto fermo, l’editore torinese: è da allora che una stampa con la sua immagine mi fa compagnia da una parete di casa.

Finito il Pli, non ho più preso tessere. Anche se continuo a seguire la politica e la militanza mi è mancata. A volte qualcuno mi chiede in quale partito mi riconosca. Non c’è più il partito, rispondo, ma io resto liberale.

Le paginette, caro Marcello, sarebbero finite. Ma prima di chiudere consentimi di ricordare quest’altre esperienze.

A 17 anni mi ritrovai ad allenare una squadra di calcio della Vigor, la società sportiva di Ognissanti. A chiedermelo era stato Spik Manfredi, amico e allenatore da tempo, con la benedizione di don Walter. Mi sentivo portato per il ruolo, accettai subito. Si trattava di lanciare una squadra nuova, con giocatori di 4 e 5 anni più giovani di me, quasi tutti alla prima esperienza. Il campo d’allenamento era nell’attuale piazzale Mondadori, dove oggi sorge l’Esselunga. Ci spogliavamo in una stanza della parrocchia, senza docce. L’incarico durò tre anni. Le soddisfazioni non mancarono. Il culmine fu la finale provinciale con la squadra favorita, Il Mantova. Perdemmo 1 a 0, ma li facemmo sudare.

Se all’inizio a qualcuno era sembrata un’iniziativa passeggera, al massimo un’idea romantica, i fatti e la durata dimostrarono il contrario. Impegno e divertimento si mescolavano in un’unica cifra. Al punto che, ritenendo l’esperienza irripetibile, in seguito scartai ogni offerta ricevuta.

Nel 2006 sentii il bisogno di creare un circolo dedicato a Gianni Brera. Forse il primo in Italia. Il bisogno nasceva dalla constatazione che stava imponendosi un nuovo giornalismo sportivo, più interessato a scandalizzare che a informare. Un giornalismo sbracato, per lo più televisivo, privo di misura, lepidezza, analisi, eleganza. Tutti elementi che fino ad allora avevano costituito le basi della professione, quelle doti di cui i lettori come me sentivano la mancanza. L’iniziativa – eravamo in cinque - voleva onorare quei giornalisti che si riconoscevano in quelle basi. E visto che la schiera stava assottigliandosi, decidemmo che avremmo ignorato figure fuori contesto o sbiadite.

Insomma, un bollino di qualità. Sorto in provincia, ma di qualità. I primi invitati furono Gigi Garanzini, Gianni Mura e Stefano Bizzotto. Poi toccò a Osvaldo Bagnoli, giunto con mezza squadra dello scudetto gialloblu. La mia intenzione era di proseguire con non più di tre incontri all’anno. Altrimenti si rischiava di abbassare il livello e, in quel caso, non aveva senso richiamarsi a Brera. Magari aprendo a discipline dove Gioann stesso aveva spaziato. Un nome che avevo in mente era quello di Aldo Grasso. Tifoso granata, si poteva parlare del Grande Torino come di ciclismo. Un'altra serata potevamo dedicarla a Gustavo Giagnoni, mantovano d’adozione e con una carriera di tutto rispetto. Avevo già preso un primo, informale contatto.

Naturalmente non volevo decidere solo io. Le proposte di chi mi affiancava però non mi convincevano. Era successo che qualcuno di noi, finito sotto i riflettori locali, s’era trovato bene. Per cui premeva per fare più incontri, magari con figure meno selezionate. Obiettivi distanti dagli scopi iniziali. A quel punto il direttivo si stava spaccando. Prima di alimentare tragedie greche, preferii dimettermi. Ringraziai per la collaborazione e salutai.

L’altra esperienza riguarda Festivaletteratura. Nel sito troverete molti articoli su questi cinque giorni che a ogni settembre accendono Mantova. L’ho seguito fin dalla prima edizione. Sia partecipando agli eventi che come autista volontario. In questa veste ho avuto la fortuna di avvicinare alcuni scrittori, incontri che non dimentico. Il mio augurio è che il festival – qui lo chiamiamo così - duri in eterno.

Come lettore e come mantovano, non smetterò di ringraziare per questo regalo. I meriti sono di tanti. Ma se devo indicare un nome, è giocoforza scrivere quello di Luca Nicolini. Non posso dire che lo frequentavo. Presiedeva il comitato organizzatore fin dalla prima ora, nel 1997. Ma come scrisse il sito del festival il giorno della sua scomparsa, per tutti noi – un noi allargatissimo – era anche molto di più.

Preferenze & classifiche

Statista: Cavour
Presidente del Consiglio: Giovanni Giolitti, Alcide De Gasperi
Politico contemporaneo: Emma Bonino, Elsa Fornero
Scrittore: Georges Simenon
Romanzo: Cent’anni di solitudine
Regista: Woody Allen, Pedro Almodovar, Clint Eastwood
Film: C’era una volta in America, Qualcosa è cambiato, Stregata dalla luna
Compositore: Ennio Morricone
Cantante: Lucio Battisti, Fiorella Mannoia
Gruppo musicale: King Crimson, Pink Floyd
Voce femminile: Mina
Voce maschile: Freddy Mercury
Pittore: Edward Hopper
Calciatore: Ronaldo
Città: San Francisco
Città italiana: Trieste
Città europea: Londra
Regione: Sicilia
Strada panoramica: Garden Route
Luogo del cuore: Grazie, Ravello
Colore: Blu
Animale: Gatto
Frase: “La qualità che io metto più in alto, per un cittadino, per un uomo politico, per uno scrittore, è il coraggio di resistere al movimento sregolato delle opinioni” Raymond Aron